Che lui all'improvviso non ci fosse più, era una constatazione quasi marginale. Molto più potente era la percezione della carne accumulata sul tuo corpo negli anni con lui.
“Mi faccia vedere ventidue chili di carne, per favore,” dici al macellaio da cui compri di solito l'affettato. Ti guarda interrogativo, ripeti la richiesta: “Voglio sapere che aspetto hanno ventidue chili di carne, non c'è bisogno che sia buona, prenda della carne qualunque.” “E poi,” chiede lui, tu alzi le spalle e lo osservi, mentre strappa un pezzo di pellicola con cui avvolge due grossi tranci che poi appoggia sul banco.
“Venga, la prendo dalla cella frigorifera, qui davanti non ne ho abbastanza,” dice infine, si asciuga le mani sui pantaloni e ti fa strada.
Poco dopo sei seduta su una sedia che il macellaio ti ha indicato e ti guardi attorno. Conosci le macellerie solo da cliente, eppure questo luogo, in cui gli insaccati e la carne vengono preparati per la vendita, corrisponde alla tua immaginazione: piastrelle bianche, ganci a cui stanno appesi i prosciutti, grossi coltelli, un tavolo di metallo, pavimento di mattonelle scure, un tubo per l'acqua arrotolato, vasetti delle spezie e diversi macchinari, sembra che per oggi il macellaio abbia finito di preparare, tutto è in ordine e pulito. Lo senti, fuori dal tuo campo visivo si dà da fare con una porta probabilmente pesante, chiudi gli occhi un momento nella speranza che l'esito almeno in parte ti tranquillizzi. “Bene,” lo senti dire, e lo vedi avvicinarsi con una cassetta bianca. Appoggia la cassetta e la svuota. Pezzo a pezzo, la carne finisce sul tavolo, vuoi toccarla, sollevare uno di quei grossi bocconi, ma il macellaio ti ferma: “Non a mani nude, che poi non posso più venderla.” Ti passa dei guanti di plastica che infili in fretta per afferrarne un grosso tocco. “Quanto pesa questo,” vuoi sapere. “Circa due chili e mezzo,” risponde mentre tira fuori gli ultimi pezzi dalla cassetta. Contempli la montagna di carne, quell'impressionante montagna di carne, pensi alle tue gambe, alle tue braccia, alla tua pancia. “È tanta, proprio tanta carne. Ventidue chili sono un sacco di carne.” “Oh,” fa il macellaio, “ma non ho mica finito, questi sono solo quattordici, di più non ce ne stava nella cassetta.” “Dice sul serio,” gli chiedi, e torni a sederti. Domanda se deve andare a prendere il resto, vorresti fare cenno di no, perché il tormento è già un po’ troppo intenso, però sai che non puoi più permetterti trucchi. “Mi faccia vedere anche il resto,” dici, e socchiudi un po' gli occhi quando porta un'altra cassetta.
“Ecco fatto,” dice, e appoggia la seconda cassetta vuota per terra. “Sono ventidue chili adesso?” chiedi per sicurezza, vorresti tanto sentirti dire che è un po' di più. Ma il macellaio conferma non senza un certo orgoglio: “Ventidue. Esatti.” “È proprio tanta,” dici ancora, e chiedi quanto verrebbe a costare. Il macellaio si sfrega la nuca: “Be', su quest'altra cassetta posso farle uno sconto, è carne di scarto, lei poi è una cliente affezionata...” La cifra che dice, non la registri, non senti che questo: carne di scarto.
“Clienti,” borbotta il macellaio e va nel negozio. Ti alzi, devi sentire quella carne, devi capire cosa significa. Con la mano sinistra ne sollevi un pezzo, la destra la fai affondare dentro il monte di carne. Le tue mani diventano molto fredde.
“Dove mettiamo il congelatore?” Fai strada in camera ai due trasportatori. “Vicino al comò,” rispondi. “Le darà fastidio di notte, fa parecchio rumore,” dice uno. “No, va bene così,” gli dai una mancia adeguata e, dopo avere attaccato il congelatore alla corrente, ti avvii verso la macelleria. Il macellaio ti sorride, come al solito non ci sono altri clienti nel negozio. “Aspetti, l'ho già impacchettata per bene,” e issa due cassette sul bancone. Dentro, la carne, che solo ieri era stesa davanti a te, adesso il macellaio l'ha divisa in pacchetti da due chili sigillati nella pellicola, come gli hai chiesto. Paghi la tua carne di scarto, meno lo sconto per clienti affezionati, ti fai riporre tutto nelle borse che hai portato e mentre te ne vai ringrazi per il consiglio di metterla a marinare con il coriandolo. Bene, pensi. Fa bene, doversi trascinare il peso. Non può che far bene, sapere quanto pesano ventidue chili. Carne di scarto, pensi.
Non hai bisogno di guardarti, non hai bisogno di toccarti, lo sai: tutta carne al posto sbagliato, tutta la carne sbagliata, che non sei mai stata tu, che ti si ammassava a tradimento. Anno dopo anno, la carne non passava inosservata, ma lui diceva che andava bene, proprio con un sorrisetto in faccia diceva così: “La mia morbidosa.” Ma guardati invece, guarda la carne, tutta la carne sbagliata, sei gonfia, come t'avessero messa apposta all'ingrasso.
A casa metti i pacchetti di carne nel congelatore nuovo, li disponi su due file da cinque, l'undicesimo lo appoggi sopra. Ti ritagli dei bigliettini, li incolli sui pacchetti e poi, cominciando da quello sopra, scrivi sulla carta i numeri da uno a undici con un grosso pennarello nero. Poi prepari un cartellino, su cui scrivi “Carne di scarto”, e lo attacchi sul numero otto.
Ti metti a letto; dormendo vuoi cacciare la fame, vuoi prepararti al tuo progetto che comincerà il giorno seguente. Ti chiedi perché non ti sei accorta mai che sembri spalmata sul materasso, che il tuo corpo deborda dagli argini. Perché le sue parole ti rendevano conciliante, quando già al secondo giorno della sua assenza ti offendono, e anzi già ora vedi il tuo corpo per quello che è: una spugna. Una spugna che assorbiva, finché veniva gratificata. È finita, pensi. E te lo sussurri piano.
Durante la notte hai già perso il primo chilo, un chilo omaggio prima dell'avvio del progetto, il tuo corpo ti incoraggia. Prepari del caffè, riempi di acqua del rubinetto due grosse bottiglie di plastica, metti le bevande di fianco al letto e ispezioni il congelatore: i pacchetti e anche i bigliettini sono ricoperti di brina; la tiri via con la mano dal numero uno e dall'undici e non sai che ritmo impongono, che ritmo sopporta il tuo corpo. Eppure questo chilo perso così di volata, la cui unica qualità che sei disposta a riconoscere è di essere già sparito, ti mette di buon umore. Sei di nuovo a letto, hai spostato il cuscino dal lato sinistro al centro, stai comoda.
Sei impaziente, vuoi vedere il tuo corpo consumarsi, vuoi poterti godere. Senti il desiderio di tornare prima possibile a toccare il tuo corpo di nuovo snello, ma, finché ci sono pacchetti nel congelatore, non gli spettano tenerezze. Non è difficile negargliene; agisci del tutto volontariamente.
La mattina dopo, trascorsa gran parte del giorno precedente dormendo, ti svegli molto presto e sei di un altro chilo più leggera. Per esserne sicura, sali di nuovo sulla bilancia, che conferma il peso perduto. Sorridente tiri fuori il numero uno dal congelatore, ti appoggi un momento il pacchetto sulla pancia, poi lo porti in sala: è sul tavolino del divano, la tua prima porzione da due chili perduta. Fai una foto e sei un poco soddisfatta.
Sette giorni dopo ci sono altri due pacchetti sul tavolo, li fotografi uno per uno e tutti insieme. Ogni tanto ti gira la testa, anche se bevi abbastanza. Ma la tua pancia è già più piatta e dopotutto, ti dici, anche altre volte te la sei cavata senza mangiare per giorni interi.
I pacchetti successivi li prelevi a intervalli più lunghi, la riduzione si è rallentata. Allora cominci con qualche esercizio di ginnastica, li fai nel letto; hai intenzione di alzarti completamente solo quando non ci saranno più pacchetti depositati nel congelatore. Il fuori vuoi tenertelo in serbo per dopo, per quando la carne sarà stata eliminata, ufficialmente. Anche gli otto chili di carne di scarto. E allora sollevare le gambe, abbassare le gambe, sollevare il busto e riabbassarlo lentamente. Il tuo corpo cambia, meno carne, così deve essere, e infatti in sala c'è la prova, cresciuta, e che adesso ha cominciato anche a puzzare.
Perché ieri non ce l'hai fatta: appena appoggiato il settimo pacchetto sul tavolo e fatta la foto, ti ha assalita un appetito a cui hai dato il nome di fame. Sei andata al frigorifero, il cibo dentro l’hai trovato già guasto, hai rovistato ancora e alla fine hai scovato spaghetti e pesto nella dispensa. Cibo semplice, ma ti sarebbe bastato, tanta era la fame che sentivi. Hai aperto il vasetto, hai annusato il pesto mentre aspettavi che l'acqua bollisse, hai buttato gli spaghetti, così, semplicemente, li hai buttati dentro, morbidosa. Nervosa camminavi avanti e indietro, con il pensiero dei quattro pacchetti ancora da liquidare, dicevi “fame”, mentre l'ingordigia, in te, gridava. I sette pacchetti già eliminati non ti tranquillizzavano, i pochi rimasti non ti incoraggiavano. Ingordigia, la fame; che ricaduta si annunciava. Ma ti sei fermata, con uno sforzo sei riuscita a darti la possibilità di pensarci ancora, per il tempo di cottura rimasto. Sei andata in sala, hai aperto i pacchetti da uno a quattro, la puzza che si diffondeva ti ha dato il voltastomaco, ma hai aperto anche il cinque, il sei e alla fine il pacchetto numero sette, ancora congelato. Ti sei spogliata – non ci voleva poi molto, dall'inizio del progetto portavi solo una camicia da notte – sei rimasta nuda, e alla fine la nausea ti ha sopraffatta, mentre tenevi tutti e sette i pezzi di carne tra le braccia, ne sentivi la consistenza e già quasi il sapore. Hai ributtato i pacchetti sul tavolo, hai spento il fornello e ti sei sentita, la sera tardi, ormai svanito quel cedimento, quasi orgogliosa e piena di euforia. Ancora quattro pacchetti, e niente più carne di scarto, quattro pacchetti, per tornare quella di prima.
Il suo pesto, i suoi spaghetti, la sua carne, tutta quella puzza arriva fino alla tua camera, dove non esiste altro più che la tua riduzione. Il giorno in cui tra i conati di vomito appoggi e fotografi il nono pacchetto, guardi la data alla televisione e ti meravigli: già da un mese stai calando, e non succede altro.
E comunque non ti servono avvenimenti, ti basta osservare il tuo corpo, già ora è molto più bello e si appoggia bene su ogni lato del letto. È quasi fatta, ti dici, mentre fai i tuoi esercizi stordita e un po' a fatica. Provi a fare le flessioni, ma ti gira tanto la testa che devi lasciarti cadere a terra. Ti tranquillizzi, ti dici che le vertigini sono dovute alla tua energia interna rimessa in moto, alle vibrazioni, che, come te, pensi, non si sono ancora abituate all'involucro ridotto e al tuo interno si scontrano contro le pareti prima del previsto, rimbalzano indietro e si sovrappongono in un caos vertiginoso.
Soltanto altri due pacchetti, ormai ce la fai, ne sei sicura, cosa può mai capitare. Di notte sogni il tuo corpo come dovrà essere, fuori, ti vedi come una fata, ma è solo l'immagine esteriore, dentro sarai forte, quasi avessi un potere sinistro.
Adesso che la meta è vicina, che hai smaltito già parte della carne di scarto, ma non ti basta ancora, un'enorme eccitazione ti sale dentro. Non riesci a prendere sonno, ti giri e rigiri nel letto e all'improvviso non puoi più rimandare: devi provarti i vestiti. Ti sfili la camicia e prendi dall'armadio quel che hai indossato ogni giorno. Esiti a infilarti nei pantaloni, esiti per paura di sentire la stoffa che striscia e preme nei soliti punti; ci fosse anche una tonnellata di carne sul tavolo in sala, non le crederesti, tanto sei abituata alla percezione del tuo corpo grasso. Invece naturalmente scivoli dento con facilità, lo spazio ti basta, addirittura ti avanza; quando tendi la cintura dei pantaloni davanti alla pancia riesci a vederti le caviglie. Ti senti così bene, fai quasi fatica a crederci. Ti giri, ti godi la vertigine, le vibrazioni, cadi, ma che importa, resti lì a terra, sollevi di nuovo la cintura, sollevi le gambe, tocchi la stoffa che penzola vuota, stendi le gambe e ti addormenti di botto.
Due giorni dopo porti il pacchetto numero dieci come una sacra reliquia in sala. Come sempre lo metti sul tavolo, scatti la foto, ma non ti va di stare ad ammirare a lungo il quadretto. Hai paura di scoprire i vermi che, a giudicare dalla puzza, devono brulicare già da tempo. Tornata in camera ti godi l'idea che sia rimasto un solo pacchetto nel congelatore. Non ci vorrà più di una settimana, anche senza ginnastica, in una settimana al massimo avrai eliminato la carne di scarto. Decidi di lasciare questo appartamento appena raggiunto il tuo scopo. Lascerai tutto così com'è, specialmente la putrefazione in sala. Ti avvolgerai in un cappotto, lo allaccerai stretto e lentamente e cautamente uscirai dall'appartamento, perché il tuo corpo in fin dei conti si è indebolito. Ma presto te ne prenderai cura, lo coccolerai, ti comprerai dei vestiti nuovi e forse volterai perfino le spalle a questa città per tornare dove nessuno ti ha mai conosciuta morbidosa.
In realtà è passata meno di una settimana. Un poco barcolli e ti viene da piangere quando vedi il risultato sulla bilancia: ventidue chili in meno, è fatta. Allora ti infili il cappotto rosso pesante sulla camicia da notte, scivoli dentro le scarpe, metti in borsa i documenti e le carte di credito e apri il congelatore. “Vieni fuori, vieni fuori, è fatta,” dici, prendi quell'ultimo pezzo di carne, vai in sala, lo metti sul tavolo e stai per prendere la macchina fotografica, quando senti il rumore di una chiave che s'infila nella serratura.
Oltre a te è lui l'unico ad avere la chiave, lo sai, e sai anche molto altro. Sgusci di nuovo in camera, ti togli le scarpe, apri il congelatore, entri silenziosamente dentro e tiri giù il coperchio con la punta delle dita, finché non filtra più luce. Chiudi gli occhi; sta per venire molto freddo.
Heikle Geißler è una scrittrice tedesca nata a Riesa nel 1977. Ha esordito nel 2002 con il romanzo Rosa. La sua ultima pubblicazione è il saggio Verzweiflungen (Disperazioni), uscito a febbraio 2025 per l’editore Suhrkampf.
Questo racconto, con il titolo originale Großabnahme, è comparso nel 2007 nella rivista letteraria online entwuerfe, che nel 2025 sembra non esistere più.
Ringrazio Heike per avermi consentito di tradurre e pubblicare il suo racconto.
Grazie ragazze per questa interessante discussione sul racconto! L’ho tradotto la prima volta diciotto anni fa quando è uscito, e mi sembrava molto chiaro, allora, che fosse una storia senza speranza, un tentativo di emancipazione più autolesionista (autopunitivo, dice Martina) della violenza subita nella relazione stessa, che fallisce poi in maniera tragica, perché è un tentativo fragile.
Riprendendolo adesso – sono più vecchia e il discorso sul corpo, specie della donna, è onnipresente, mentre non mi pare lo fosse allora – questa visione così oscura mi ha quasi spaventata. E vedo anche nei vostri commenti un tentativo di fare onore ad altri aspetti di questa vicenda, di vedere un qualcosa da “restituire”, da “salvare”, o un’”espiazione”.
Mi chiedo se il nostro (in senso collettivo) atteggiamento sia in questo senso cambiato, se il racconto sia così pessimista come lo vedevo prima o se contenga degli elementi di forza, fosse anche solo il “potere sinistro” che emerge a un certo punto, come mi sembra oggi. Forse ci sembra di averne più bisogno?
Si dice anche che un’opera letteraria contenga sempre qualcosa in più di quanto l’autrice ci abbia consapevolmente messo, e credo sia vero.
E infatti sarei stata tentata di chiedere a lei, ma poi non l’ho fatto.
Ieri infatti sono salita su un treno per andare a sentirla presentare il suo nuovo libro a Lipsia. Avevo scoperto per caso questo evento quando ho cercato il suo contatto per chiederle l’autorizzazione a pubblicare dopo tanti anni. Era la prima volta che ci incontravamo. Nella dedica mi ha scritto “Wie schön!” (“Che bello!”) e non abbiamo aggiunto altro.
È un racconto molto forte.
"Carne" è una parola forte. "Scarto" uguale.
L’uso della seconda persona (non so se fedele all’originale) mi ha forzata a vivere in prima tutto quello che descrive. Molto intenso.
Se dovessi dare un’interpretazione a quello che ho letto – cosa che mi permetto di fare – direi che lei voglia restituire quello che le rimane della relazione con quel lui, di cui si fa pochissimo accenno.
"Chi rompe paga e i cocci sono i suoi". Ed eccoli lì, sul tavolo: i cocci che vuole restituirgli. Puzzolenti e putrefatti.
Il finale non riesco a capirlo. Sono claustrofobica, e questo mi basterebbe per morire di paura, ma in un congelatore un non-claustrofobico può sopravvivere? Gli sta forse lasciando ben più di cocci in mucchietti da due chili, o pensa di uscire verso una nuova vita, leggera, non appena lui si è allontanato?
Come al solito, forse, mi sono soffermata sul dito che indica la Luna. Lo faccio sempre. Mi perdo a studiare le proporzioni tra le falangi, mi chiedo se sono tre su tutte le dita, scopro che no, il pollice ne ha solo due. Apro il palmo, divaricando le dita, e mi chiedo se siano davvero 20 cm tra la terza falange del mignolo e la seconda del pollice (no, per me sono 22 cm, ho controllato. Me ne devo ricordare, di questo +5%).
E mentre penso a tutto questo, decido che non voglio sapere, non voglio decidere se c’è o meno un lieto fine.